Ecco un altro articolo del giornale telematico www.strettoindispensabile.it con un'intervista fatta da Alessandra Verzera a Pino Martinez

Omerta': cosa fare.
Il testimone di un delitto di mafia e' a rischio di rappresaglie e vendette tanto quanto un " pentito".

di Alessandra Verzera

16 maggio 2002

Si e' detto che il siciliano aveva ripreso la sua vita di sempre, forse assalito dalla pigrizia, forse demotivato e forse anche incoraggiato dagli ambienti politici ad accettare di convivere pacificamente con la mafia, che tanto della Sicilia costituisce in fin dei conti la storia.
L'allarme si e' fatto alto e lo hanno lanciato in tanti: giornalisti, scrittori, comitati cittadini ma anche - e questo avrebbe dovuto far riflettere sul serio - dal procuratore di Palermo Pietro Grasso. In un dibattito di alcuni mesi addietro Pietro Grasso parlo' in modo molto esplicito di un disinteresse sociale rispetto alla lotta alla mafia. In quel dibattito il Procuratore di Palermo era intervistato dal giornalista Saverio Lodato : e a sentirli entrambi tremavano le vene ai polsi. La denuncia era precisa e circostanziata. A volerla ridurre a poche e scarne parole potrei tradurla cosi' : la gente di Sicilia della mafia ormai se ne frega. Forse e' vero : e forse - pigri ed indolenti come pochi altri nel Paese - i Siciliani non aspettavano che questo, e cioè che un rappresentante del governo - addirittura un ministro - li legittimasse a fregarsene, invitandoli alla pacifica convivenza con uno dei problemi più grossi della storia d'Italia : la mafia. E - giusta conseguenza della campagna di desensibilizzazione - e' ritornata prepotente nelle cronache recenti la parola omertà : e' riapparsa in modo sinistro ma invasivo dopo il duplice omicidio di Borgo Vecchio ma ancora , e come sempre, di questo termine tutto siciliano, sfugge a molti il significato. Orrendo, certo , ma non per tutti e non sempre. Bene lo sanno quelli che - sfidando le logiche delle appartenenze e la pratica tanto diffusa in Sicilia del " farsi i fatti propri " hanno sfidato la tendenza parlando e denunciando. Uscendo dal branco, distaccandosi dalla tribù. E' capitato cosi' che normali cittadini investiti da un senso civico che appartiene a pochi, abbiano denunciato in modo circostanziato esecutori di delitti: e che per aver fatto ciò si siano ritrovati con la vita distrutta. In una regione come la nostra accade infatti che ai semplici cittadini che decidono di aiutare il processo di normalizzazione di una terra inquieta, accadano episodi che hanno dell'incredibile. E cosi' un testimone riceve un trattamento molto simile a quello che viene riservato ai " pentiti", ai collaboratori della giustizia : ovvero ad ex assassini spietati, killers. Vengono denominati " testimoni della giustizia" tanto per distinguerli doverosamente dai pentiti : un ruolo che in altri paesi del mondo e' assolutamente normale e non presuppone alcun programma specifico di protezione per il testimone di turno, se non l'adozione di normalissime cautele e precauzioni. Ma in Sicilia denunciare e testimoniare diventa un calvario : in Sicilia denunciare significa mettersi sullo stesso piano di chi ha offeso; di chi ha ucciso e poi si e' pentito e che perciò deve proteggersi da coloro che ha deciso di " tradire". E' capitato a Palermo, dove due giovani hanno visto ed identificato gli esecutori di un omicidio in una delle zone " calde" della città, correndo dagli inquirenti a rendere la loro testimonianza. Da quel momento hanno detto addio alla loro vita cosiddetta " normale". Vivono nascosti, protetti, in una località segreta: le loro identità sono state cambiate e la cautela nel rapportarsi agli altri - tutti possibili nemici - e' divenuto un imperativo categorico, pena la vita. Questo e' lo stato delle cose, purtroppo. Se non si può ne' si deve giustificare l'omertosità di certi ambienti, ci si deve pero' sforzare di comprenderla: porci noi stessi nella medesima situazione. Fino a che punto saremmo disposti a dire addio alla vita di tutti i giorni per decidere di vivere blindati solo per aver compiuto un dovere preciso ? La contaminazione ambientale di certi strati della società siciliana e palermitana in modo particolare e' altissima : una sorta di malaria che investe e devasta tutto ciò che incontra. In un contesto cosi' anche fare le cose " normali" diventa un lusso, ma più che altro un rischio. Pino Martinez - promotore di un movimento di rinascita attivo nel quartiere di Brancaccio - di cose di questo genere ne ha viste parecchie, rischiando anche in prima persona per aver deciso di non farsi i " fatti suoi". Martinez e' uno che va avanti a muso duro, affiancato da altri " facinorosi" che fomentano gli animi alla pace e al senso di giustizia : una missione insopportabile per i mafiosi, siano essi di rango o meno. Accanto a Martinez, un drappello di altri normali cittadini, un musicista palermitano di nome Rino Martinez, e la guida di un piccolo grande martire della storia moderna: Don Pino Puglisi. Di seguito, l'intervista a Martinez, mentre il processo " porte bruciate" contro sicari e mandanti dell'omicidio di Don Pino Puglisi va avanti e mentre il popolo di Brancaccio fatica a liberarsi di tante etichette di cui l'ultima - forse la piu' infamante - parla di degrado e pedofilia, e che la gente di Via Hazon respinge categoricamente.

D. Martinez, lei nel corso degli anni ha assistito ad un processo di cambiamento, di risveglio della coscienza civile: quanto costa a Palermo sfidare le leggi non scritte di Cosa Nostra?

R. In questi giorni, come lei ha appena detto, siamo impegnati su due fronti: il processo "porte bruciate" e l'iniziativa "Recuperare Brancaccio" nata a seguito del duplice omicidio avvenuto nel quartiere Borgo Vecchio di due giovani pregiudicati della via Hazon 18 e dei casi di pedofilia che hanno portato Brancaccio ancora una volta nelle prime pagine della cronaca nera. Con "Recuperare Brancaccio abbiamo proposto al Sindaco di Palermo l'acquisto da parte del Comune dei locali abbandonati della via Hazon 18, da anni luogo delle più svariate pratiche illegali. In impegni come questi dove ci si espone frontalmente contro "Cosa Nostra" noi abbiamo bisogno di sentire vicine la società civile e le istituzioni. Credo che, nonostante il risveglio delle coscienze, scosse dagli omicidi di mafia compiuti nel 1992-93, ci sia ancora molta strada da fare. Nei quartieri di Palermo si percepisce la paura della mafia, e la cultura dell'omertà non é stata sconfitta. Ritengo che ancora costa molto sfidare la mafia a Palermo. Io so che sino a quando la mafia non sarà sconfitta i rischi per quelli come noi sono alti.

D. In molti ricordiamo la coraggiosa testimonianza di due giovani che decisero di spezzare la logica del silenzio denunciando dei sicari: di loro si e' persa traccia e non si sa dove siano. Lei come suppone che vivano adesso quei due ragazzi ?

R. Io e Giuseppe (l'altro, Matteo, e` morto da alcuni anni a causa di una grave malattia) abbiamo avuto poche opportunità d'incontro. L'ultima volta ci siamo visti al Tribunale di Palermo per il processo "porte bruciate" - lui sotto stretta sorveglianza - per la costituzione di parte civile dell'Associazione Intercondominiale contro i fratelli Graviano, boss mafiosi di Brancaccio, ed altri quattro.
Ho cercato di capire come vive la sua delicata situazione di testimone di giustizia e l'ho visto con il morale a terra e abbastanza critico nei confronti dello Stato. Un passo avanti e` stato fatto con il riconoscimento giuridico del testimone di giustizia, ma altri passi devono essere fatti per dare completa dignità a chi sceglie di testimoniare contro una organizzazione criminale, pericolosa come la mafia. Per questa sua scelta di civiltà, Giuseppe ha dovuto rinunciare agli affetti più cari, alla sua terra che tanto ama, ad una vita che gli permetteva di avere sicurezza economica e di mantenersi agli studi universitari. Tutte cose che non ha più, ancora oggi.

D. Alla luce di quanto e' loro accaduto dopo quella testimonianza, lei ritiene che sarebbe disposto a ripercorrere tutto quanto fin qui vissuto, specie con la consapevolezza che il suo gesto rappresenta la classica goccia nell'oceano ?

R Nonostante tutte le mortificazioni Giuseppe ritiene che la sua scelta di collaborazione sia giusta, gli dispiace solamente che tale scelta venga messa in discussione proprio da chi ha il dovere istituzionale di proteggerlo.

D. Lei ritiene che questa persona e i testimoni in genere, siano sufficientemente garantiti ? Non e' troppo grande la rinuncia che si chiede ad un testimone solo per avere compiuto il proprio dovere?

R. Il prezzo per la sua scelta di collaborazione è stato molto alto e nulla potrà mai restituirgli ciò che ha perso in tutti questi anni (la famiglia, l'identità culturale, l'impegno di volontariato……). Ha fatto ciò che riteneva giusto in coerenza con i suoi ideali di vita. Certe volte ripensa con malinconia alla sua Palermo, al suo quartiere, ma non ha mai pensato - lo dice lui stesso - in termini: "cosa si vince e cosa si perde" ?

D. In questa ottica, diventa giustificabile l'omertà ? Diventa comprensibile il rifiuto di collaborare, sapendo a cosa si va incontro facendolo?

R. No ! è la risposta di chi come Giuseppe paga un prezzo per avere scelto di non essere omertoso. Sbagliato pensare che visto che lo Stato è assente (o la mafia è potente) la nostra reticenza trovi una giustificazione, una ragione d'essere.

D. Insomma, o ammazzati dalla mafia e dalla malavita, o segregati: come si può andare avanti in questo modo? In cosa consiste il giro di vite nella storia palermitana?

R. Mi sono reso conto che nonostante tutto Giuseppe ha la forza di andare avanti. Le difficoltà incontrate in questi anni d'impegno accanto a padre Puglisi gli hanno fortificato lo spirito. Rimane la speranza che coloro che hanno avuto la forza di contrapporsi concretamente alla mafia senza fermarsi ai girotondi e alle manifestazioni possano essere presi come esempio dalle giovani generazioni per sconfiggere la mafia e salvare tante altre vite umane.

D. Lei crede che il senso del dovere basti e sia sufficiente a decidere di rinunciare alla propria esistenza, specie constatando che poi- di fatto- il sacrificio e' servito a ben poco?

R. Una volta ci siamo chiesti il perché della nostra lotta nonostante i rischi. Prima di tutto - mi rispose Giuseppe - credo nel senso di rispetto che ognuno deve avere per la propria dignità e di quella altrui.
Con padre Puglisi non eravamo i soli a coltivare questa idea che a Brancaccio cominciava a creare una nuova coscienza.

D. Lei - che di queste vicende si e' interessato ed ha conosciuto - cosa si sentirebbe di suggerire ai magistrati e alle forze dell'ordine?

R. Cosa posso dire ai magistrati e alla forze dell'ordine; niente, soprattutto se penso che loro a Palermo hanno pagato il contributo più alto nella lotta contro la mafia, spesso insieme, come nei casi di Falcone e Borsellino. Piuttosto, penso che l'intera classe politica deve porre fine ai continui conflitti che finiscono per influenzare e mettere in conflitto tra loro gli organismi istituzionali. Questi sono segnali negativi per la società civile.
E` necessaria una nuova cultura politica che porti a fare recepire che la lotta per la legalità e la giustizia, l'impegno per fare rinascere i quartiere degradati di ogni periferia non sono prerogative di una sola parte politica. In modo che questo agire politico diventa proposta per tutti. Attraverso i suoi uomini più trasparenti e credibili la classe politica deve avviarsi verso questa svolta, che non può comprendere l'accettazione della convivenza con la mafia, se vuole realizzare il bene della società, e questa sollecitazione deve partire da noi semplici cittadini uniti nelle proposte per una società a misura della dignità che spetta all'uomo.
In questo modo abbiamo agito io, Giuseppe, Mariella, Avia, Mario, Nino, Gregorio,……noi a Brancaccio, insieme a padre Puglisi.